“Il giornalismo non è un crimine” è il titolo dell’appello lanciato da Amnesty International per chiedere la liberazione di Mahmoud Abu Zeid, meglio conosciuto come Shawkan.

Fotoreporter, egiziano, 29enne, è detenuto in carcere, in Egitto, da oltre tre anni accusato di un lungo elenco di reati: adesione a un’organizzazione criminale, omicidio, tentato omicidio, partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane, ostacolo ai servizi pubblici, tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza, resistenza a pubblico ufficiale, ostacolo all’applicazione della legge e disturbo alla quiete pubblica.

Quando e come si sarebbe macchiato di tutti questi crimini?
In un giorno solo e con un’unica sintetica azione: Shawkan ha scattato delle fotografie. 
Le ha scattate il 14 agosto del 2013 e da allora è l’ennesima vittima di un Egitto che soffoca col sangue e con la tortura la libertà di stampa. Quelle fotografie immortalavano il violento sgombero delle forze di sicurezza durante un sit-in convocato dalla Fratellanza musulmana a Rabaa al-Adawiya, un quartiere del Cairo. In quell’occasione le forze di sicurezza uccisero oltre 600 manifestanti, e Shawkan, che stava seguendo l’evento per l’agenzia londinese Demotix, potrebbe aggiungersi al lungo elenco di morti causato da quella repressione.

Sebbene l’articolo 143 del codice di procedura penale preveda un limite massimo di 24 mesi di detenzione cautelare per i reati più gravi, il fotoreporter è da tre anni in attesa della fine di un processo segnato da udienze continuamente riinviate. Processo che potrebbe chiudersi con l’ergastolo.

Non solo le accuse contro di lui -come attesta Amnesty International- appaiono del tutto pretestuose e volte esclusivamente alla censura, ma la macchina giudiziaria che gli si è mossa contro ha smontato ad uno ad uno ogni suo diritto, a partire da quello di essere difeso: il suo avvocato non è stato messo al corrente dei capi d’imputazione fino alla prima udienza del processo, tenutasi due anni e mezzo dopo l’arresto. Durante la detenzione gli è stata diagnosticata l’epatite C ma gli vengono negate le cure mediche. Ha inoltre denunciato di essere stato torturato più volte.

Shawkan dal carcere scrive: “[…]Quello che è evidente è il desiderio di persecuzione da parte del capo degli informatori. Lui e io non abbiamo mai avuto niente a che fare sul piano personale, dentro e fuori il carcere, per giustificare gli insulti e la terza ispezione consecutiva questo mese. Ha risparmiato tutti i criminali che si trovano in questa prigione, quelli della Fratellanza musulmana, quelli dell’Isis, per opprimere un giornalista che è stato tradito mentre svolgeva il suo dovere e lasciato a marcire in una prigione per 1000 giorni senza poter vedere un giudice. Ma il suo modo di fare appartiene a lui o sta seguendo le istruzioni dei suoi superiori? Se è così lo stato egiziano, rappresentato dal governo, ha deciso di lasciare in pace i nemici della Fratellanza e dell’Isis per impartire una dura lezione a un giornalista che non ha affiliazione politica se non quella alla sua professione, un giornalista che ha risposto alle richieste del governo di seguire lo sgombero del sit-in di Rabaa al-Adaweya. Mi chiedo: non è abbastanza aver trascorso 1000 giorni in una detenzione ingiusta sulla base di false accuse? Mille e una notte? Perché impediscono ai miei anziani genitori di vedermi dopo aver fatto un viaggio di quasi un giorno e mezzo per portarmi cose di cui avevo bisogno? Perché 10 persone devono ispezionare per due ore una cella grande come una scatola di cerini? Sebbene dall’ispezione non sia emersa alcuna infrazione al regolamento, il gruppo degli informatori mi minaccia avvertendo che torneranno ancora. Ma che vogliono da me il capo degli informatori e i suoi uomini? Perché tutta questa oppressione e persecuzione? Non è ancora abbastanza?

Intanto l’udienza che avrebbe potuto portare verso l’epilogo del suo calvario, prevista per il 21 marzo, è stata rinviata all’8 aprile. Tre anni di procrastinazioni e di agonia per essersi macchiato di un’unica colpa: aver fatto il giornalista.