venerdì, Marzo 29, 2024
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L’oro di Napoli: la storia di Marek Hamšík

Il numero 17 a Napoli è associato alla disgrazia, la cattiva sorte. Secondo l’Antico Testamento il Diluvio Universale iniziò il 17 del secondo mese, mentre nell’antica Roma sulle tombe dei defunti era comune trovare la scritta VIXI, “Vissi”, il cui anagramma è XVII, appunto il 17 nel sistema di numerazione romano. Le origini di questa credenza sono quindi molteplici e suggestive. Ciononostante anche la città del Sole, definita la capitale delle antiche superstizioni, deve arrendersi all’evidenza. Da ormai alcuni anni si aggira per i borghi partenopei un 17 di cui i tifosi non possono fare a meno, di fronte a cui ogni leggenda popolare deve convincersi che quel numero non può portare sfortuna: stiamo parlando del 17 di Marek Hamšík.

La storia ha inizio a Banská Bystrica, la bella città slovacca in cui papà Richard e mamma Renata, appena diciottenni, danno alla luce il piccolo Marek. Il ruolo della famiglia sarà essenziale. Il padre, anche lui calciatore, gli trasmette la passione del “futbal”, mentre le orme di mamma Renata, giocatrice di pallamano, saranno seguite dalla sorella di Marek, Michaela. Chi sembra averci visto lungo è però il nonno che regalerà ad Hamšík un paio di scarpini ancora prima di nascere.

Papà Richard lo segue in ogni fase della sua crescita. A 4 anni lo iscrive alla scuola calcio dello Jupie Podlavice dove inizia subito a manifestare sprazzi di classe: nell’autunno del ’98, nella partita contro la diretta concorrente Dolná Strehová, Marek segna ben 16 reti. Record, oggi, ancora imbattuto in Slovacchia. Quando non è con la squadra, si allena con gli amici nel piccolo cortile davanti casa. Il tutto prosegue fino ai 14 anni quando Marek, dopo il fallimentare passaggio allo Sparta Praga per problemi burocratici, viene notato dallo Slovan Bratislava. Il club della capitale versa però in condizioni economiche disastrose e non può assicurarsi le prestazioni del giovane centrocampista di proprietà dello Jupie Podlavice. Ma Hamsik può sempre contare sul padre, che chiede un prestito a due suoi amici, vende la macchina, una vecchia Skoda Felicia, e racimola il denaro necessario per concludere la trattativa. Dopodiché, grazie ad un’auto chiesta in prestito, tutta la famiglia si mette in viaggio, destinazione Bratislava.

Il giovane slovacco conduce la squadra alla vittoria del campionato allievi e juniores, impresa che allo Slovan Bratislava non riusciva da ben 14 anni. Lascia un bel ricordo in tutti, soprattutto in Bobik, professore di 53 anni all’Università dello Sport e primo allenatore di Marek a Bratislava: “Quando lui arrivò, anche la mia famiglia si mise a disposizione. Durante la settimana dormiva in uno degli appartamenti all’interno dello stadio Tehelne Pole. Usciva coi compagni di squadra e passava i weekend da noi, giocavamo a tennis e a hockey su ghiaccio. Mangiava sempre pasta e pollo, e collezionava le figurine dei calciatori. E’ sempre stato umile, discreto ma sorridente”.

Ad ottobre del 2003, nel girone di qualificazione della nazionale ‘under 17’, il manager del Brescia Maurizio Michelli si accorse di Marek. Dopo appena due mesi arrivò il contratto con il Brescia per la cifra di 60.000 euro e da lì a poco la prima presenza in serie A. Fu nella squadra lombarda che Marek diede prova della sua abilità nel tirare i calci di rigore: durante la preparazione estiva ne realizza 56 consecutivi in una sessione d’allenamento ai due portieri (Emiliano Viviano e Federico Agliardi) chiamati ad alternarsi tra i pali.

La personalità certo non mancava, lo testimoniano le parole di Mario Somma, allenatore di quel Brescia: “In ritiro per stabilire il rigorista organizzai una gara: Marek fu perfetto, non sbagliò neanche una volta. In partita contro il Treviso eravamo 1-1 al 94’ e ci fu fischiato un rigore a favore, i più anziani della squadra gli consegnarono il pallone: Hamšík si avvicinò al dischetto con grande tranquillità e ovviamente segnò”.

Poi il trasferimento al Napoli, questa è storia nota. Dieci anni all’ombra del Vesuvio. E pensare che Pierpaolo Marino, l’allora dirigente sportivo del Napoli, lo scoprì per caso: “Fummo fortunati nel prendere Hamšík. Quando il Napoli era ancora in C, andai a Brescia a visionare Omar Milanetto. All’85’ entrò Hamšík: fui attratto dalla sua capigliatura, portava la cresta come mio figlio. Decisi di rimanere altri 5 minuti. Scoccò subito la scintilla. Lo prendemmo appena arrivammo in A e Aurelio fu bravo nell’ascoltarmi.

Edy Reja lo schiera nel ruolo di interno sinistro nel suo 3-5-2 e Marek diventa un’arma letale in area di rigore, una scheggia impazzita, l’imprevedibilità in un mare di certezze. Mazzarri lo valorizza affiancandogli Lavezzi. Lo slovacco si laurea per tre stagioni consecutive capocannoniere della squadra partenopea, i tifosi non erano abituati a sognare così in grande dai tempi di Diego Armando Maradona. A 22 anni diventa il più giovane capitano della storia azzurra, superato Antonio Juliano. Il 31 gennaio 2014, sotto la gestione Benítez, diventa il capitano ufficiale dopo la partenza di Paolo Cannavaro. Con il tecnico spagnolo però il rapporto non è dei più idilliaci. Hamšík viene schierato trequartista dietro Cavani ma nella nuova posizione, spalle alla porta, il giocatore avrà non poche difficoltà ad esprimersi e sarà protagonista di una stagione non all’altezza. Poi, come la migliore delle fenici, la rinascita e la decisiva consacrazione ad opera di Maurizio Sarri che lo riporta nel suo ruolo più naturale, la mezz’ala sinistra. Il “Sarrismo” riesce ad esaltare a pieno le caratteristiche dello slovacco, le sue capacità d’inserimento e il suo essere un dilemma per gli avversari in ogni parte del campo.

Marek ne ha visti molti passare, calciatori, tecnici, dirigenti. Ma lui è rimasto, nonostante fosse corteggiato da mezza Europa. E come un vino buono stiamo assistendo alla sua migliore annata, la piena maturità. Con il tempo è riuscito ad abbinare alla sua tecnica, duttilità ed eleganza una velocità di pensiero unica nel suo genere che gli permette di districarsi da situazioni difficili così come di servire in un battito di ciglia un compagno sul filo del fuorigioco.

“Se un giorno dovessi andare via da Napoli sarà perché mi stanno cacciando, io rimango qui, questa è la mia casa!”

Parole che sembrano di circostanza in un’epoca calcistica in cui le bandiere sono un miraggio, in cui si tende a sminuire e demistificare valori quali fedeltà e appartenenza. Ma per Marek vale un discorso a parte, per lui che ha fatto dell’azzurro la sua seconda pelle, come un tatuaggio, letteralmente. Sì, perché gli eventi più importanti della sua vita, Marek, tende a segnarli con l’inchiostro: dai nomi dei figli alla data del matrimonio con Martina, dalle vittorie della Coppa Italia e della Supercoppa alla storica qualificazione mondiale di Sudafrica 2010, in cui riuscì a condurre la sua nazionale agli ottavi di finale a scapito, ahimè, della nostra Italia.

Quindi il 17 a Napoli può ancora considerarsi il numero della disgrazia? Se chiedessimo a Marek risponderebbe che si tratta del suo numero portafortuna, per lui che nato il 27/7/1987 alle sette di sera. Allora non può essere un numero, una credenza, a preoccupare lo slovacco. Per sua stessa ammissione, ciò che lo spaventa davvero è non riuscire a trovare spazi in area per gli inserimenti. Ma siamo sicuri che L’oro di Napoli o, se preferite, Marekiaro, riuscirebbe comunque a trovare una soluzione e magicamente insaccare la palla. A modo suo, a cresta alta.