martedì, Aprile 23, 2024
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Napoli, un corpo senza vita e i selfie delle giovani

Una risata, una chiacchiera all’uscita da scuola e poi un corpo in una fossa. Non urlano, non chiamano aiuto, ma impugnano il cellulare e scattano una foto. Erano appena uscite da scuola le ragazze di San Giovanni a Teduccio, periferia orientale di Napoli, che hanno trovato il cadavere di Vincenzo. Quando arriva il fotoreporter le trova lì con il flash accesso: «Sapevano benissimo ciò che era successo: siamo arrivati insieme e ho sentito che, fra di loro, dicevano: ora lo fotografo per mandarlo a mia madre», racconta Marco Sales, il fotoreporter che ha ripreso la scena.

Vincenzo, 18 anni, era scomparso da due settimane, i genitori l’hanno visto per l’ultima volta il 5 febbraio. Dopo aver denunciato la scomparsa, hanno partecipato alla trasmissione “Chi l’ha visto”. Ma non è arrivata nessuna risposta. Perché nessuno in quei giorni avrebbe potuto vederlo: Vincenzo era sotto mezzo metro di terra in quel campo poco distante da un paio di istituti scolastici e dal parco pubblico intitolato a Massimo Troisi. Gli hanno sparato alla testa, uno o forse due colpi. La squadra mobile ha fermato un sospettato, un ragazzo di 23 anni con alcuni precedenti. Il movente non è ancora chiaro, anche perché la vittima non aveva mai avuto guai con la giustizia. Forse, ipotizzano gli investigatori coordinati dal procuratore aggiunto Filippo Beatrice, un movente passionale o una “punizione” decisa dalla camorra per ragioni da chiarire.

Intanto, la vicenda dei “selfie” delle ragazze di San Giovanni a Teduccio diventa virale. Le voci sono contrastanti. Il direttore del carcere minorile di Nisida, Gianluca Guida, intravede nel gesto di quelle studentesse i segnali di quella che, spiega a Repubblica, «alcuni osservatori hanno definito come la quiet generation: una generazione tranquilla, ma corazzata da un vuoto pneumatico che li circonda e li estrania da ogni emozione. Ai nostri occhi – aggiunge Guida – quella fossa rappresenta una persona che è stata uccisa. Guardandola, possiamo indignarci, commuoverci, provare rispetto verso chi non c’è più. Per questa generazione, invece, l’unico mezzo per entrare in relazione con i fatti è lo strumento mediatico. La foto è il modo con il quale si impossessano di un evento o di un luogo, ma lo fanno senza emozioni. Non lo sentono. Questa difficoltà educativa a entrare in empatia con le situazioni e con le persone rappresenta, a mio avviso, il vero campanello d’allarme».

Probabilmente siamo in un mondo in cui, spiega il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi-Doria (sempre a Repubblica), «lì per lì ogni cosa vale come le altre. Il bacio davanti al mare. Il gol al calcetto. La buca dove è stato trovato un giovane assassinato. La faccia dell’amica mentre ride di te. Succede un fatto bello, terribile, mostruoso e noi pensiamo a condividerlo sul cellulare. Adesso. È tutto sullo stesso piano e dura per quel momento lì che tu scatti col cellulare. È così che lo affianchi, lo registri, lo rimandi, vai oltre.  Allora ci ritorni, ti disperi o ti dà gioia. E ridiventa vero».

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