giovedì, Marzo 28, 2024
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Gabriele Del Grande – se al giornalismo serve la tragedia

Sono serviti lunghi giorni di prigionia perché il nome di Gabriele Del Grande venisse alla ribalta. Telegiornali, grandi testate, trasmissioni televisive. Ovunque si è parlato di quel giornalista che, armato di coraggio e registratore, è partito alla volta del Medio Oriente per fare il suo lavoro e si è visto bloccare in Turchia senza che gli venisse contestato alcun vero reato. I contatti con l’esterno ridotti all’osso, l’isolamento, l’impossibilità di parlare col suo avvocato: Gabriele Del Grande è stato vittima di una palese violazione dei diritti fondamentali di fronte alla quale subito si è temuto il peggio: un altro Giulio Regeni? Per fortuna no.

Il giornalista è tornato in Italia e sta bene, ma non sta bene il giornalismo, e non solo perché raccontare il vero in certi Paesi costa il carcere (se tutto va bene), ma anche e soprattutto perché in altri di Paesi, dove la libertà d’espressione sulla carta esiste, serve sfiorare la tragedia perché si dia spazio a chi concepisce l’informazione come un dovere etico e non come clientelismo. Perché l’Italia che ha accolto Gabriele Del Grande a braccia aperte è la stessa che non ha investito nel suo lavoro, costringendolo a ricorrere al crowdfunding prima con “Io sto con la sposa” e ora con “Un partigiano mi disse”, due tentativi di guardare oltre i muri aizzati dall’Europa senza la pretesa di ergersi a detentori della giustizia. “I commentatori nostrani – scrive lo stesso Del Grande – sanno soltanto sciorinare a memoria il verbo dello scontro di civiltà e il rassicurante quanto vuoto racconto della lotta del bene contro il male, dell’umanesimo contro la barbarie” ed è a quei commentatori che oggi si dà fiducia, perché la verità è troppo scomoda e chi la cerca va imbavagliato anche da noi, seppur con mezzi meno violenti di quelli che impiega la Turchia.

Se il fatto che la stampa non investa in un certo tipo di giornalismo è da un lato una sconfitta per l’Italia, dall’altra rappresenta un’opportunità per una frontiera dell’inchiesta nuova, in cui il pubblico smette di assumere un ruolo passivo e diventa parte integrante e fondamentale della ricerca. Non solo destinatario, ma anche mezzo, a dimostrazione che quel giornalismo poco valorizzato risponde alle domande che la gente si fa ogni giorno. 2617 produttori dal basso hanno permesso a Gabriele Del Grande di documentare, oltre che di favorire, la traversata di diversi Siriani dall’Italia alla Svezia. Un atto di disobbedienza civile diventato un film. 1342 sono invece i sostenitori del suo ultimo viaggio: sei mesi di ricerca e sei di stesura per un libro-inchiesta che parte da una storia:

“Quando ho impugnato le armi contro Asad sapevo di andare incontro alla morte. Ma ho sempre pensato che sarei morto felice, che sarei morto combattendo per la libertà, che il sacrificio della mia vita sarebbe servito a dare un futuro migliore a mio figlio. […] La verità, Gabriele, è che morirò invano. Perché mio figlio mi tradirà! Sarà solo a piangere sulla mia tomba e per vendicare il mio sangue e il sangue di mezzo milione di morti di questa guerra maledetta, verrà a seminare la morte in Europa. E quando si farà esplodere in un aeroporto e ucciderà i tuoi figli, tu non potrai biasimarlo perché siete rimasti indifferenti per anni mentre qua massacravano noi”.

Incisivo, tagliente, ma attento e minuzioso, anche nel suo blog, Fortress Europe, in cui racconta sei anni di viaggi lungo i confini dell’Europa, “alla ricerca delle storie che fanno la storia. La storia che studieranno i nostri figli, quando nei testi di scuola si leggerà che negli anni duemila morirono a migliaia nei mari d’Italia e a migliaia vennero arrestati e deportati dalle nostre città. Mentre tutti fingevano di non vedere”.

Questo è il giornalista fermato in Turchia e finalmente liberato, quello di cui negli ultimi giorni si è parlato tanto e di cui, probabilmente, si parlerà ancora. Giusto il tempo di sfiorare una nuova tragedia.