Il sottile confine tra garantire la stabilità e favorire la deriva autoritaria.
Se n’è parlato tanto in Italia ed ora è il turno della Turchia.
La commissione elettorale ha confermato che il prossimo 16 aprile il popolo turco sarà chiamato a esprimersi sulla riforma costituzionale voluta dal presidente Erdogan e già approvata dal Parlamento lo scorso 21 gennaio.
Il referendum, convocato a dispetto di sondaggi fortemente contrari, ha in comune con la consultazione italiana del 4 dicembre scorso alcuni temi portanti: da un lato un presidente che fa leva sulla necessità di garantire al Paese una stabilità maggiore, cavalcando soprattutto l’onda di paura causata dai recenti attentati terroristici; dall’altro un fronte variegato di oppositori spaventati dall’idea di concedere a un solo uomo un potere eccessivo.
La riforma prevede la modifica di 18 articoli della Costituzione con il passaggio della Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Il Parlamento, se il testo venisse approvato, passerebbe da 550 a 600 membri e l’età media per candidarsi alla carica di deputato si abbasserebbe da 25 a 18 anni. I cambiamenti su cui si consuma il dibattito, però, riguardano la figura di Erdogan: una vittoria del sì lo renderebbe anche capo dell’esecutivo, gli conferirebbe il potere di nominare ministri, emanare decreti, sciogliere il Parlamento e dichiarare lo stato d’emergenza.
Un’ulteriore sostanziale modifica avrebbe conseguenze anche sull’Unione Europea: la riforma prevede, infatti, che Erdogan possa concorrere per altri due mandati e restare in carica fino al 2029. La Turchia è candidata ad aderire all’Unione, e le politiche adottate dall’attuale presidente sono, allo stato attuale, uno scoglio difficile da superare. Innegabile che queste, infatti, siano spesso in contrasto con gli obiettivi perseguiti, almeno sulla carta, da un’Unione Europea che si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani. Contemporaneamente, però, l’UE dipende dalla Turchia per quanto riguarda la questione migranti. Un equilibrio già precario e un referendum che condizionerà inevitabilmente relazioni internazionali sempre più complesse.