Le Olimpiadi di Rio 2016 rischiano di non essere tanto ricordate per le prodezze sportive, quanto per una serie di contorni dai sapori assortiti e i colori più vari: la polemica sul “trio delle cicciottelle”, la storia di un coma terminato con una medaglia, la sentenza che ha sancito la fine di Schwazer, il nuotatore in sovrappeso che ha terminato la gara con quindici secondi di ritardo, i tuffatori che hanno totalizzato zero punti schiantandosi sull’acqua, l’intervista tragi-comica a un’atleta cinese che non riesce a credere alla sua vittoria. Dal 5 agosto, insomma, i giornali hanno avuto un bel po’ di materiale su cui hanno ricamato volentieri e anche a ragione, perché si sa, più delle gare sportive, alla gente piace seguire le soap-opera.

Altra novità delle Olimpiadi in corso, su cui si sono da subito accesi i riflettori, è la squadra olimpica dei rifugiati, fortemente voluta dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale) per tenere alta l’attenzione sulla crisi dei migranti anche durante i Giochi olimpici.

Sono dieci gli atleti volati in Brasile caricandosi sulle spalle l’onere di dover rappresentare i 60 milioni di rifugiati che oggi abitano il mondo. Vengono da Siria, Sud-Sudan, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo. Anche di loro si è parlato ben poco per il talento ma tanto, forse troppo, per il vissuto drammatico, che ben si presta ad essere raccontato col pathos tipico di un romanzo: la diciottenne Yusra Mardini ha trascinato a nuoto la barca su cui viaggiava per raggiungere la Grecia,  James Nyang Chiengjiek ha rischiato di essere reclutato come bambino soldato, Popole Misenga veniva chiuso in una gabbia ogni volta che perdeva una competizione, quando praticava judo a Kinshasa. Tutte storie di fame, di guerra e di lunghe traversate. Fiabe che hanno emozionato, ma anche destato parecchie polemiche.

Andrea Coccia, su Linkiesta, scrive che la squadra dei rifugiati “è soltanto un’operazione di comunicazione, una mossa ipocrita e consolatoria”. Difficile ribattere se si pensa che mentre a Rio si cantano a squarciagola gli inni nazionali, ad Aleppo, in Siria, le gole bruciano di sete a causa dei bombardamenti che hanno danneggiato la rete idrica; che mentre in Brasile si nuota per le medaglie, a Ventimiglia si contano le bracciate verso una Francia in cui “liberté, egalité e fraternité” valgono solo per chi decide l’Unione Europea; che mentre dieci rifugiati sognano il podio olimpico, tutti gli altri combattono quotidianamente contro la xenofobia di paesi in cui l’accoglienza sa di ghettizzazione mista a sfruttamento.

“L’obiettivo delle Olimpiadi è mettere lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, per promuovere una società pacifica in accordo con la preservazione della dignità umana”. La squadra dei rifugiati, da questo punto di vista, rientra perfettamente nell’intento “promozionale”: sembra una fiaba da raccontare ai bambini, magari ignorando il finale… perché vedrà, probabilmente, la carrozza tornare zucca subito dopo il 21 agosto. Le belle storie, che tanto hanno commosso, lasceranno spazio a immagini di guerra a cui siamo così abituati che hanno addirittura smesso di farci senso.