giovedì, Dicembre 12, 2024
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Le carceri e la distruzione dei diritti umani

Registrazioni su registrazioni che si accumulano, materiale su materiale che viene raccolto e l’idea di un carcere come centro di rieducazione svanisce sempre di più. Rachid Assarag è un detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane, da quando le sbarre si sono chiuse dietro di lui, ha ricevuto botte e sevizie di tutti i tipi. La sua prima mossa è stata quella di denunciare gli agenti del carcere di Parma, che in quattro lo picchiavano con la stampella a cui si appoggiava per camminare, ma, purtroppo, nessuno crede a un uomo che ha violentato una donna; così Rachid, assistito dall’avvocato Fabio Anselmo, dal 2009 è stato trasferito in undici carceri diverse (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), per ogni carcere raccoglie una o più registrazioni.

«Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». «Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io», questa è solo una delle tante testimonianze che fanno accapponare la pelle. Rachid provoca continuamente: «Voi qui non applicate la Costituzione». La risposta del brigadiere è sconvolgente: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni.». Che strano paradosso le carceri nascono dalla Costituzione, ma vivono di vita propria. Che strano paradosso le carceri dovrebbero rieducare, non solo punire. Rachid: «Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna».

Le registrazioni di Rachid vengono prima raccolte dall’associazione “A buon  diritto” e poi rese pubbliche. Moltissimi magistrati acquistano le testimonianze, ma il caso di Assarag sembra procedere a rallentatore. A questo punto il detenuto marocchino decide di non mangiare più, di non sottostare più alle botte, di ribellarsi: non importa il male, importa la verità. Scrive l’associazione “A buon diritto”: «Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata».  Tuttavia, la cosa più sconvolgente è che gli agenti non smentiscono le accuse, ma difendono i loro modi di “rieducazione: «Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi». E i diritti umani ancora un volta vengono calpestati.

 

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