venerdì, Aprile 26, 2024
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UE, la Gran Bretagna si chiama fuori

I britannici rompono il tabù dell'exit

Londra, clamorosa vittoria (51,9% a 48,1%) del fronte del leave.
Al netto del voto scozzese (in buona parte filo europeo in funzione anti-inglese) il risultato è ancora più vistoso.
Vittoria sicuramente inattesa, perché non prevista dai sondaggi e dagli opinion polls. Ma meno sorprendente se si considera l’esito del referendum che è stato indetto in Grecia da Tsipras (dopo che il precedente tentativo di Papandreu, fortemente osteggiato dall’Ue, non era andato in porto) sul piano di aiuti europei, nonché la sonora bocciatura referendaria della Costituzione europea in Francia e nei Paesi Bassi, nel più lontano 2005.
Insomma, tra Istituzioni Europee e democrazia diretta c’è poco feeling, e non da oggi. Questo è il primo dato.
Un dato che, soprattutto in Italia, dove le fondamenta repubblicane sono state gettate proprio con un referendum, non può essere trascurato.
Un richiamo, quello alla nascita della Repubblica Italiana, che, tra l’altro, vale da solo a spazzare via i dubbi che vengono sollevati sull’opportunità (fermi naturalmente i vincoli previsti dalla nostra Costituzione) di lasciare al popolo l’ultima parola su temi così importanti.
La vittoria del fronte del leave, inoltre, è maturata nonostante il clima di incertezza sulle conseguenze della Brexit, clima alimentato, con toni particolarmente allarmistici dalle stesse autorità europee. Piuttosto che tenere i piedi ben piantati su terre ritenute ormai inospitali i concittadini di Horatio Nelson hanno preferito prendere il largo per navigare a vista in mare aperto.
Anzi, vien da pensare che a soffiare sulle vele del leave sia stato anche l’asfissiante pressing esercitato, per tutta la campagna elettorale, dalle autorità europee sull’opinione pubblica britannica; lo stillicidio di moniti e avvertimenti provenienti da Bruxelles è stato probabilmente vissuto (e forse non a torto…) dagli orgogliosi sudditi di sua Maestà come un’indebita ingerenza nei loro affari interni.
La storia insegna. I Britannici hanno resistito a Napoleone, ai bombardamenti hitleriani. Non potevano che restare stoicamente indifferenti alle fosche previsioni di recessione in caso di brexit, al conseguente, e inevitabile crollo della sterlina e, persino, al rischio di nuove interne spinte centrifughe che è stato paventato prima e anche dopo il voto. Rischio, in realtà, assai più remoto di quanto si voglia far credere, considerando che il referendum per l’indipendenza della Scozia si è svolto appena due anni fa, e ha visto il successo degli unionisti, ed è assai improbabile che possa essere rimesso in discussione, e non più per una rivendicazione identitaria, ma per una mancata condivisione di un indirizzo politico frutto di un voto democratico.
Oltretutto, il voto scozzese (e nordirlandese) pro remain è stato assai tutt’altro che plebiscitario.
Nemmeno l’omicidio, a pochi dal voto, della deputata laburista filo europea Joanne Cox, ha danneggiato la causa del leave.
La mappa del voto, invece, rispecchia le previsioni della vigilia: oltre che in Scozia ed Irlanda del nord, il remain ha prevalso a Londra, in particolare nella City, e, significativamente – ancorché non solo qui-, in centri come Oxford e Cambrige, nonché tra le élite. Il leave ha vinto in quasi tutto il resto del Paese, ed è stato preferito dalla middle class e dai ceti popolari, i più colpiti dalla globalizzazione. Anche questo vorrà pur dire qualcosa.
Dietro l’angolo, vi è il tanto temuto (o auspicato, a seconda dei punti di vista…..) “effetto domino”. L’exit era una pista non battuta. Il caso britannico costituisce un precedente al quale altri Paesi dell’UE che ne volessero seguire l’esempio potrebbero rifarsi.
Non è inevitabile. Dipenderà dai riflessi, al momento imprevedibili, che la brexit avrà sul piano economico e sociale.
Ma non è più inevitabile neppure restare nell’Ue.
L’Europa non sarà più una camicia di forza, per nessuno.

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